A lavoro nella fabbrica lager sotterranea della Heinkel

19 Dicembre 1944, “Dopo l’appello fummo ricondotti in baracca, con l’ordine di attendere in piedi nuovi ordini. Non avendo ancora lavorato, ci informarono che non avremmo mangiato, e rimanemmo digiuni per l’intera giornata. A metà pomeriggio ci fecero uscire nuovamente sul piazzale, facendoci allineare e sottoponendoci al solito rito del sincrono levare e rimettere il berretto. Ci fu anche il discorso di un sergente delle SS, dal chiarissimo significato: eravamo lì solo per lavorare per la grandezza della Germania, che per pura magnanimità ci permetteva di vivere, ma solo per produrre, dato che noi eravamo la feccia dell’umanità, banditi, sovversivi, antisociali; lui stesso sarebbe stato felice di ucciderci uno ad uno, qualora si fossero verificate defezioni sul lavoro, o peggio, atti di sabotaggio. A conclusione di questo cordiale discorso di benvenuto, aggiunse che essendo stati tutto il giorno senza far nulla, dovevamo fare un po’ di ginnastica. Ci fece accoccolare a gambe larghe con le mani a terra e ci ordinò di saltare imitando i ranocchi, percorrendo tutto il perimetro del piazzale. Naturalmente nell’esecuzione di questo esercizio eravamo aiutati da alcuni volenterosi assistenti dei Kapos che con tubi di gomma o con pezzi di cavo elettrico, staffilavano i più lenti o quelli che non saltavano sufficientemente lungo. “.
Così trascorse la prima giornata di Marcello nella sua nuova destinazione, il sotto-campo di Hinterbrühl, la fabbrica lager sotterranea della Heinkel composta da due gallerie una a 20 e l’altra a 30 metri sotto terra, dove venivano realizzate fusoliere per aerei a reazione, con i quali la Germania contava ancora di vincere la guerra.
Una ripida e angusta scala conduceva alle gallerie, ogni giorno durante il cambio turno, veniva percorsa da almeno quattrocento o cinquecento persone contemporaneamente, i Kapos si piazzavano in cima, in fondo, e nei pianerottoli intermedi e gratuitamente, assestavano a tutti i deportati violenti colpi di tubo di gomma o di cavo elettrico, questo sarà ricordato da Marcello come uno dei momenti più drammatici della giornata.
Intanto il fronte si stava sempre più avvicinando con  l’intensificazione dei bombardamenti, lunghe interruzioni di corrente elettrica e difficoltà maggiori nel reperimento delle materie prime; anche il lavoro si era fatto più faticoso con l’aumento della produzione da una a due fusoliere al giorno; tra i deportati inizia a diffondersi il timore che presto le SS, per eliminare ogni traccia, avrebbero allagato le gallerie.

La Marcia della Morte

Ma all’alba del 1 Aprile del 1945, radunati sul piazzale del campo, i deportati ricevettero due pagnotte a testa e l’ordine di prelevare una coperta dai propri giacigli, infine, ignari della dura esperienza che li attendeva, poterono provare un senso di sollievo alla notizia che sarebbero tornati a piedi a Mauthausen.
Nessuna traccia doveva rimanere del sistema concentrazionario nazista, così, al momento della partenza, tutti i deportati inabili, furono uccisi con una iniezione di benzene nel cuore; avvolti in grandi teli di carta e disposti a bordo di carri, che i deportati in marcia avrebbero dovuto tirare, sarebbero stati sepolti lontano dal campo.
Così ebbe inizio la Marcia della Morte, una marcia di oltre 200 km, durante la quale furono uccisi almeno 200 deportati ormai stremati delle forze, così funzionavano queste marce, ogni prigioniero che cadeva o dava segno di evidente stanchezza veniva prontamente ucciso con un colpo alla nuca.
Dopo 8 giorni di terribili sofferenze fisiche e psicologiche, Marcello ricorda così l’arrivo a Mauthausen: “Nel primo pomeriggio si cominciò a sentire nell’aria il classico odore di carne bruciata del crematorio, percorremmo l’ultima salita, e superato il Campo Russo, apparve il tetro portone del campo di sterminio di Mauthausen. Mi pervadeva una mortale stanchezza, che offuscava ogni ragionamento; sapevo che, dopo aver varcato il portone, potevo essere inviato alla camera a gas, ma finalmente non dovevo più marciare e soprattutto non dovevo più vedere morire i miei compagni! Un incubo era comunque finito! Eravamo seduti a terra di fianco alla baracca nei cui sotterranei avremmo rivissuto forse la procedura dell’immatricolazione; eravamo inebetiti in attesa del nostro destino. “

La liberazione

Per i deportati che giunsero vivi a Mauthausen si ripeté nuovamente l’iter di ingresso con le 24 ore di attesa nel cortile, il rito delle docce con acqua calda e fredda, la rasatura.
Gli ultimi giorni che Marcello trascorse a Mauthausen furono certamente i più difficili, le condizioni fisiche e psicologiche dei deportati, dopo la Marcia della Morte, erano ormai disperate, mano a mano che i giorni passavano le razioni di cibo si fecero sempre più scarse; il forno crematorio lavorava a pieno ritmo, tutti conoscevano il proprio destino: l’uscita da Mauthausen sarebbe avvenuta attraverso il camino.
In quei giorni la vita a Mauthausen non aveva certo molto valore, la morte era ovunque in agguato. Il camino del crematorio fumava in continuazione, e l’odore di carne bruciata ammorbava l’aria che un numero sempre più esiguo di noi deportati respirava.“.
Poi un giorno Marcello sente intonare a mezza voce dai suoi compagni l’Internazionale, non ci sono rappresaglie, capisce che qualcosa sta cambiando; il 5 Maggio del 1945: “Incerto e un pò timoroso mi avviai verso l’Appellplatz che pullulava di compagni e, non so come, mi ritrovai sul tetto della baracca n. 1.
Proprio in quel momento faceva il suo ingresso in campo il primo automezzo americano circondato da deportati che urlavano di gioia.
I due americani che scesero dal veicolo furono letteralmente sepolti dalla folla: in quel momento magico tornavamo ad essere UOMINI

– Tra il 1943 e il 1945 furono registrati a Mauthausen 8300 italiani, il 5 Maggio del ’45 ne erano rimasti in vita poche centinaia. –

Tutte le citazioni nel testo sono tratte da:
Un Adolescente in Lager
Ciò che gli occhi tuoi hanno visto

Marcello Martini
Giuntina 2007